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La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale.
B1. Nel primo capoverso del testo, quale espressione è usata come sinonimo di acqua?
Risorse idriche
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2019_08_SIM_B
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La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale.
B10. Un Comitato dell'ONU ha dichiarato che "l'accesso all'acqua è un diritto umano universale". Che cosa significa l'espressione sottolineata? Per rispondere completa la frase che segue. L'acqua è un diritto.............
di tutte le persone
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2019_08_SIM_B
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Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica.
C3. Qual è la condizione perché un'affermazione possa essere ritenuta accettabile sul piano ù scientifico? Per rispondere completa, con una sola parola, la frase che segue. Un’affermazione, per essere accettata, deve poter essere
verificata
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2019_08_SIM_C
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Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica.
C5. Il pronome "egli", evidenziato nel testo, quale termine sostituisce?
universo
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2019_08_SIM_C
domanda aperta
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Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica.
C6. Secondo Galilei, qual è lo strumento essenziale per comprendere l'universo? Rispondi con una sola parola (senza farla precedere dall'articolo).
matematica
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2019_08_SIM_C
domanda aperta
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Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica.
C7. Nel testo Galileo è descritto con una serie di aggettivi. Due di essi sono riferiti a tratti della sua personalità che lo rendevano una persona con un "brutto carattere": quali? Scrivili qui sotto. 1. 2.
polemico, vendicativo
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2019_08_SIM_C
domanda aperta
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L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ
D5. Quale verbo utilizza l'autore col significato di "rappresentare qualcuno o qualcosa secondo un modello che semplifica o modifica la realtà"?
stilizzare
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2019_08_SIM_D
domanda aperta
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E1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Esempio: Edificio adibito ad abitazione dell’uomo: casa (nome che inizia per c) Buttarsi, lanciarsi in acqua: (verbo che inizia per t)
tuffarsi
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2019_08_SIM_E
domanda aperta
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Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo.
B1. In questa parte di testo, gli autori danno una definizione di “emozione”. Quale? Ricopia la definizione completa. ...........................................................................................................
Un’emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita
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2018_05_SNV_B
domanda aperta
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Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo.
B3. Alla riga 7 si afferma “succede spessissimo”. Che cosa succede spessissimo? ................................................................................................
Che scatti un’emozione
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2018_05_SNV_B
domanda aperta
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Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo.
B4. Il “sale della vita” (riga 15) è un’espressione figurata usata come titolo del terzo paragrafo e riferita alle emozioni. Per chiarire perché le emozioni sono considerate “sale della vita” completa la frase che segue con parole del testo. Come il sale serve a dare sapore ai cibi, così le emozioni servono ...............................................................................................................
rendere la vita interessante
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2018_05_SNV_B
domanda aperta
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Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa.
A4. Basandoti sul grafico, rispondi alla seguente domanda: quali Paesi hanno contribuito maggiormente all’incremento demografico nel periodo dal 1950 al 2010?
I Paesi in via di sviluppo
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2018_08_SIM1_A
domanda aperta
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L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…»
B8. L’espressione “Quelle persone senza volto” (evidenziata nel testo) a chi si riferisce?
compratori
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2018_08_SIM1_B
domanda aperta
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L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…»
B12. Con quale fatto si conclude la vicenda raccontata?
la morte del protagonista
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2018_08_SIM1_B
domanda aperta
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UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica.
C5. Trova nella parte di testo evidenziata il termine che corrisponde a questa definizione: primo esemplare che serve da modello per la realizzazione successiva di prodotti in serie e riportalo nello spazio sottostante. Risposta: ....................
prototipo
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2018_08_SIM1_C
domanda aperta
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D6. Nelle frasi che seguono, tratte da scritti di studenti, la parola in grassetto non è quella corretta, anche se le assomiglia. Scrivi la parola che ha un suono simile a quella errata ed è appropriata rispetto al contesto della frase. È stato il momento più memoriale della mia vita!
memorabile
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2018_08_SIM1_D
domanda aperta
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D1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Correre dietro a qualcuno per raggiungerlo: (verbo che inizia con i)
Inseguire
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2018_08_SIM2_D
domanda aperta
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D2. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Organismo vegetale nella sua prima fase di sviluppo da un seme o da una gemma: (nome che inizia con g)
Germoglio
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2018_08_SIM2_D
domanda aperta
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D3. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Impedire o rendere difficile la realizzazione di qualcosa: (verbo che inizia con o)
Ostacolare
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2018_08_SIM2_D
domanda aperta
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La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale.
A4. Nel primo capoverso del testo, quale espressione è usata come sinonimo di acqua?
Risorse idriche
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2018_08_DR_A
domanda aperta
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E1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione buttarsi, lanciarsi in acqua: .................... (verbo che inizia per t)
Tuffarsi
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2018_08_DR_E
domanda aperta
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato.
B3. L’autore afferma che il gufo “merita veramente il suo nome”: a quale nome si riferisce?
Gufo reale
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2018_10_SIM_B
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato.
B5. A quale termine si riferiscono i due -lo di “asservirlo” e “renderlo innocuo” (parole evidenziate nel testo)?
nemico
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2018_10_SIM_B
domanda aperta
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato.
B8. L’immagine del gufo gettato nello studio televisivo spinge l’autore a riflettere e, per analogia, a pensare alla sorte di
tutte le creature
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2018_10_SIM_B
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Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto.
C9. L’ “ombra” al verso 12 è una metafora che sta per
morte
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domanda aperta
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali?
D1. Nel testo si dice: “la decisione politica divenne indispensabile” (espressione evidenziata). Di quale decisione si tratta?
schierarsi dalla parte dei fascisti o contro di loro
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2018_10_SIM_D
domanda aperta
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali?
D3. L’intervistatrice definisce la partecipazione dei ragazzi alla lotta partigiana in un modo che l’intervistato non condivide. Trascrivi la frase in cui Roberto Denti esprime il proprio dissenso.
La guerra non è un gioco
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2018_10_SIM_D
domanda aperta
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali?
D4. Per quale ragione la Resistenza chiedeva ai ragazzi-staffetta di controllare il colore delle mostrine dei soldati?
Per capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi
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IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970)
A7. Perché la madre decide che la figlia deve andare a scuola da sola?
per renderla più autonoma
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2017_08_PN_A
domanda aperta
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IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970)
A11. Quando la protagonista è capace di trasgredire i principi educativi del padre? Solo quando ...............................................
Il padre è fuori casa
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2017_08_PN_A
domanda aperta
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IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970)
A16. La narratrice-protagonista afferma che “le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba” (righe 69-70). Per quale motivo le sgridate della maestra sembravano alla protagonista “un tubare di colomba”?
Perché era abituata alle sfuriate del padre, ben più dure e violente
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2017_08_PN_A
domanda aperta
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Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014)
B1. Chi sono i “nativi digitali”? Completa la frase ricopiando le parole del testo. L'espressione "nativi digitali" indica ....................
le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia
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2017_08_PN_B
domanda aperta
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Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014)
B4. Varie parole nel testo appartengono al campo semantico “lettura su carta” (ad esempio: libro, inchiostro…) e altre appartengono al campo semantico “lettura su schermo” (ad esempio: pixel, icona…). Nel testo da riga 41 a 49, un verbo che appartiene al campo della lettura su schermo viene però usato in riferimento alla lettura su carta. Quale verbo?
Navigare
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Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014)
B7. Perché è importante che i bambini imparino a scrivere a mano e non utilizzando una tastiera?
solo così si attivano i circuiti cerebrali dedicati alla lettura
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011)
B3. L’autore afferma che il gufo “merita veramente il suo nome”: a quale nome si riferisce?
Gufo reale
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011)
B5. A quale termine si riferiscono i due -lo di “asservirlo” e “renderlo innocuo” (riga 14)?
nemico
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domanda aperta
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SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011)
B8. L’immagine del gufo gettato nello studio televisivo spinge l’autore a riflettere e, per analogia, a pensare alla sorte di
tutte le creature
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domanda aperta
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005)
D1. Alle righe 8-9 si dice: “la decisione politica divenne indispensabile”. Di quale decisione si tratta?
di schierarsi dalla parte dei fascisti o contro di loro
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domanda aperta
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005)
D3. L’intervistatrice definisce la partecipazione dei ragazzi alla lotta partigiana in un modo che l’intervistato non condivide. Trascrivi la frase in cui Roberto Denti esprime il proprio dissenso.
La guerra non è un gioco
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Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005)
D4. Per quale ragione la Resistenza chiedeva ai ragazzi-staffetta di controllare il colore delle mostrine dei soldati?
Per capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi
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2017_10_SNV_D
domanda aperta
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L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011)
B16. In questa storia c’e` qualcuno che si comporta in modo piu` furbo del solito e qualcuno che prima e` sfortunato, ma poi ha fortuna. Scrivi chi e` l’uno e chi e` l’altro. A. Chi si comporta in modo "più furbo del solito" è .................... B. Chi prima è sfortunato, ma poi "ha fortuna" è ....................
volpe, lepre
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2016_02_SNV_B
domanda aperta
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Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013)
B2. All’inizio del paragrafo si parla di uno “strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie” (righe 1-2). Di quale strumento si tratta?
piramide dell’attività motoria
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2016_05_SNV_B
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Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002)
A9. I fratelli avevano verso gli incubi di Elsa un atteggiamento contraddittorio. Completa la frase qui sotto, copiando dal testo le parole da cui emerge questa contraddizione. I suoi fratelli prima .................... ma poi ....................
I suoi fratelli prima si precipitavano al suo lettino, ma poi si guardavano fissi sbottando a ridere
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2016_08_PN_A
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Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002)
A14. Gli aggettivi elencati sotto si trovano nel testo da riga 46 a riga 54. Due di questi aggettivi sono sinonimi. Quali? Sottolineali. arguto / gioviale / estatico / rapito
estatico, rapito
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2016_08_PN_A
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Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002)
A17. Il testo narra di situazioni e fatti che si ripetono piu` volte nel passato. Quale modo e tempo verbale viene usato per sottolineare questa ripetitivita`?
Indicativo imperfetto
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2016_08_PN_A
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Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014)
B15. Perche´ Canada, Australia e Russia vengono aggiunti nel testo all’elenco dei Paesi “virtuosi”?
Consumano molto, ma dispongono di enormi risorse
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2016_08_PN_B
domanda aperta
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Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014)
B18. Trova la frase che risponde alla domanda posta nella parte iniziale del testo (righe 6-8) e ricopiala qui sotto.
La risposta non potrà essere che negativa
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2016_08_PN_B
domanda aperta
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MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014)
A2. Trascrivi le tre espressioni usate nel testo per indicare il contrario di “verità piena” 1. .................... 2. .................... 3. ....................
menzogna totale - menzogna conclamata - panzana pazzesca
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2016_10_SNV_A
domanda aperta
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MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014)
A7. L’autore ritiene che ci sono informazioni che non ammettono discussione. Trascrivi la frase che esprime questa opinione.
esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli
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2016_10_SNV_A
domanda aperta
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Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987)
B7. Alla fine del terzo capoverso il Giai e` “allegro, ride, e` bello”. A chi appare cosi` e perche´?
Individua che appare cosi` alla moglie che lo ricorda al tempo del loro innamoramento
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2016_10_SNV_B
domanda aperta
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Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987)
B11. Nell'ultimo capoverso del testo è presente una similitudine. Trascrivila.
come un passero
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2016_10_SNV_B
domanda aperta
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La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011)
D5. Fra queste parole individua e sottolinea i due intrusi, cioe` i nomi che non corrispondono alle caratteristiche della democrazia descritte dall’autore: confronto / cultura / dialogo / informazione / liberalismo / partecipazione / patriottismo / rispetto
liberalismo, patriottismo
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2016_10_SNV_D
domanda aperta
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Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002)
A1. Dove si svolge la storia che hai letto?
Amsterdam
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2014_05_SNV_A
domanda aperta
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Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002)
A11. Nel testo, da riga 35 a riga 44, il funerale viene descritto in tutta la sua tristezza, ma qualcosa e` fuori luogo. Che cosa? Copialo dal testo oppure riscrivilo con parole tue.
stava calcolando tra se´ quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone
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2014_05_SNV_A
domanda aperta
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Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002)
A14. Qual è l’errore che il protagonista ha fatto? Scrivilo sulle righe qui sotto.
credere che Kannitverstan fosse il nome di una persona oppure del proprietario
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2014_05_SNV_A
domanda aperta
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Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006)
B2. “E` il nostro cervello che ci obbliga a farlo” (riga 1). Che cosa ci obbliga a fare il nostro cervello?
ci obbliga a dormire
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2014_05_SNV_B
domanda aperta
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C10. Completa la frase in modo appropriato utilizzando un pronome relativo. “Ho incontrato Luca, ………………………………….. sono andata al parco”.
con cui
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2014_05_SNV_C
domanda aperta
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Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012)
A1. In quale Paese e` ambientata la vicenda narrata nel testo?
Algeria
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2014_08_PN_A
domanda aperta
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Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012)
A9. Alle righe 30-31 si legge “Allora ci soffrivo parecchio”. A che cosa si riferisce il pronome “ci”? Al fatto di ....................
Al fatto di non essere accettato dai compagni
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2014_08_PN_A
domanda aperta
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Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012)
A12. Quale parola e` usata nel testo per indicare il gruppo dei coetanei che il protagonista lascia quando va alla scuola secondaria?
Tribù
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2014_08_PN_A
domanda aperta
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Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012)
A18. Che cosa ha di diverso per il protagonista “questo Mediterraneo” (riga 55) rispetto a quello di quando era ragazzo?
odore
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2014_08_PN_A
domanda aperta
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L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03)
B3. Quale aggettivo viene utilizzato nel primo capoverso come sinonimo di “giapponese”?
Nipponico
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2014_08_PN_B
domanda aperta
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L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03)
B11. Con quale termine del linguaggio scientifico viene indicata la lunghezza del periodo di luce nel corso della giornata?
Fotoperiodo
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2014_08_PN_B
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L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03)
B13. Nella frase “per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa” (riga 40), a quale decisione ci si riferisce?
Alla decisione di introdurre l’ora legale
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2014_08_PN_B
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Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012)
C1. L'articolo fa riferimento ad alcuni fatti avvenuti nell'estate di un anno preciso. Quale? Anno ..........
2012
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Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012)
C6. Alla riga 16 si dice “di allora”. A quale periodo di tempo si riferisce questa espressione? Ricerca e ricopia le parole a cui l'espressione si riferisce.
dal primo dopoguerra agli anni ‘80
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2014_10_SNV_C
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Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012)
C13. Durante l’estate citata nell’articolo, di quanto si e` ridotto in media lo spessore dei ghiacciai alpini italiani?
due metri
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2014_10_SNV_C
domanda aperta
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ITA06F1 3 COME SONO DIVENTATO PORTIERE Mi avevano fatto giocare con loro perché recuperavo la palla ovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone di un appartamento abbandonato del primo piano. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi. Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a piano terra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil1 un po’ sgonfio per l’uso. Mentre bisticciavano sul guaio, mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo il tubo dell’acqua che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c’era lei, la bambina che cercavo sempre di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù. Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all’altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l’appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com’è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c’erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera nel buio del letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto. Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all’impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, È un tipo di pallone da calcio, in uso negli anni Cinquanta del Novecento. prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l’ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere. Da quel giorno mi chiamarono “ ’a scigna”, la scimmia. Mi tuffavo in mezzo ai loro piedi per afferrare la palla e salvare la porta. Il portiere è l’ultima difesa, dev’essere l’eroe della trincea. Prendevo calci sulle mani, in faccia, non piangevo. Ero fiero di giocare coi più grandi, che avevano nove e anche dieci anni. Capitò altre volte il pallone sul terrazzino, ci arrivavo in meno di un minuto. Davanti alla porta da difendere c’era una pozzanghera, per una perdita d’acqua. All’inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non l’avevo mai incontrata, non sapevo com’era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole. (Tratto e adattato da: E. De Luca, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2011)
A1. Dove finiva spesso il pallone?
Sul balcone
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2013_06_SNV_A
domanda aperta
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ITA06F1 3 COME SONO DIVENTATO PORTIERE Mi avevano fatto giocare con loro perché recuperavo la palla ovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone di un appartamento abbandonato del primo piano. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi. Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a piano terra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil1 un po’ sgonfio per l’uso. Mentre bisticciavano sul guaio, mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo il tubo dell’acqua che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c’era lei, la bambina che cercavo sempre di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù. Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all’altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l’appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com’è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c’erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera nel buio del letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto. Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all’impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, È un tipo di pallone da calcio, in uso negli anni Cinquanta del Novecento. prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l’ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere. Da quel giorno mi chiamarono “ ’a scigna”, la scimmia. Mi tuffavo in mezzo ai loro piedi per afferrare la palla e salvare la porta. Il portiere è l’ultima difesa, dev’essere l’eroe della trincea. Prendevo calci sulle mani, in faccia, non piangevo. Ero fiero di giocare coi più grandi, che avevano nove e anche dieci anni. Capitò altre volte il pallone sul terrazzino, ci arrivavo in meno di un minuto. Davanti alla porta da difendere c’era una pozzanghera, per una perdita d’acqua. All’inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non l’avevo mai incontrata, non sapevo com’era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole. (Tratto e adattato da: E. De Luca, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2011)
A2. Nelle frasi “Mi avevano fatto giocare con loro”, “Mentre bisticciavano sul guaio” e “Incuriositi accettarono”, il soggetto è sottinteso. Di chi si sta parlando?
Dei ragazzi più grandi
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2013_06_SNV_A
domanda aperta
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MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993)
A7. Perchè Nenè non si ribella quando Arturo lo spinge nel bagno? Ricopia dal testo la frase che spiega il comportamento di Nenè.
era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane
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2012_06_SNV_A
domanda aperta
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MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993)
A14. Nel finale del racconto, Arturo dice una frase che dimostra che lui in realtà non ha capito quello che è successo in casa sua. Trova la frase e ricopiala qui sotto.
Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia
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2012_06_SNV_A
domanda aperta
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MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993)
A15. Chi ha riparato lo sciacquone rotto?
Nenè
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2012_06_SNV_A
domanda aperta
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La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978)
B2. Perche´ fino al 1950 “la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale” (righe 3-4)?
Fino ad allora una grossa stalagmite ostruiva il passaggio fra la parte iniziale della grotta e la parte piu` interna
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2012_06_SNV_B
domanda aperta
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La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978)
B12. Perche´, durante il letargo, gli orsi hanno bisogno di respirare aria umida? Per rispondere, completa la frase seguente. Perché mentre dormono gli orsi non ........................................ mai.
Bevono
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2012_06_SNV_B
domanda aperta
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La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978)
B16. Perche´ gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta della Ba`sura?
Perche´ c’era piu` caldo
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2012_06_SNV_B
domanda aperta
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La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978)
B18. Come mai gli orsi delle caverne avevano potuto andare verso il fondo della grotta della Ba`sura se il passaggio nel 1950 era ancora bloccato da una grande stalagmite?
All’epoca in cui vivevano gli orsi delle caverne la stalagmite non c’era ancora
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2012_06_SNV_B
domanda aperta
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C9. Leggi la frase seguente: “Se non fossimo stati costretti a rimanere a casa, oggi saremmo andati al mare”. Se tu non conoscessi il significato dell’espressione sottolineata, che cosa andresti a cercare sul dizionario? …………………………………………………………………………………………………………………
costringere
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2012_06_SNV_C
domanda aperta
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L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233)
A9. L’espressione “Quelle persone senza volto” (riga 28) a chi si riferisce?
compratori
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2012_08_PN_A
domanda aperta
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UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA)
B5. Trova nelle righe da 26 a 32 il termine che corrisponde a questa definizione: primo esemplare che serve da modello per la realizzazione successiva di prodotti in serie. Risposta: ……………………......................................
prototipo
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2012_08_PN_B
domanda aperta
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Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni
C2. Quale informazione riportata sul biglietto permette di dire che chi viaggia in treno difende l’ambiente?
risparmi circa 54kg di CO2
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2012_08_PN_C
domanda aperta
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Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni
C6. In base a quanto si dice sul retro del biglietto, che cosa bisogna fare per avere più informazioni sulle Condizioni Generali di trasporto?
Rivolgersi alla biglietteria delle stazioni
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2012_08_PN_C
domanda aperta
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Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno.
A3. Qual è il momento migliore per assumere Sportase?
Durante o immediatamente dopo l’attivita` fisica
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2012_10_SNV_A
domanda aperta
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Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno.
A5. Qual è la dose massima di Sportase che puo` essere assunta giornalmente?
3 bustine
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2012_10_SNV_A
domanda aperta
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La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007)
B7. Riformula la frase “i più rifiutavano” (riga 28) sostituendo le parole “i più” in modo che il senso della frase resti invariato:
La maggior parte dei signori
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2012_10_SNV_B
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La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007)
B11. Il vecchio Andurro ha un cuore generoso. Riporta una frase del testo da cui lo si capisce.
voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto
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2012_10_SNV_B
domanda aperta
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Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986)
C6. C’e` un elemento della scena che il poeta dichiara di non saper descrivere. Quale?
volti
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2012_10_SNV_C
domanda aperta
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OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24)
D2. La parola OKKIO è stata formata unendo scherzosamente due parole. Quali?
OK, occhio
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2012_10_SNV_D
domanda aperta
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Contribuire allo sviluppo sostenibile: due suggerimenti di sofiaf98 Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo della società che non compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Perché un processo sia sostenibile deve utilizzare le risorse ad un ritmo tale che esse possano rigenerarsi naturalmente. È necessario adottare un comportamento etico basato su attività che rientrino nell’ottica della sostenibilità, in modo da raggiungere un equilibrio tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura. In questo anche la scuola può fare qualcosa. Ho analizzato comportamenti ad alto impatto ambientale nella mia scuola e ne ho individuati due: eccessivo consumo di acqua e cattivo uso del riscaldamento. Primo problema: nei bagni scolastici si spreca molta acqua. Per ottimizzare il risparmio idrico, propongo l’installazione di riduttori di flusso. Il riduttore per rubinetto, che viene inserito al posto del normale “frangigetto”, è un meccanismo piccolo ma estremamente raffinato: un sistema di riduzione di flusso in vari livelli che frammenta l’acqua in minuscole particelle e la miscela con aria. Il volume del getto si mantiene corposo e confortevole, in questo modo si consuma circa la metà dell’acqua, pur garantendo il mantenimento della stessa pressione di uscita. Con un intervento molto semplice ed economico è possibile risparmiare fino al 50% dell’acqua calda e fredda! Secondo problema: cattivo uso del riscaldamento. I termosifoni funzionano in maniera non razionale. In particolare, quando la temperatura si alza, i radiatori continuano a funzionare. È opportuno avere un controllo diretto sui termosifoni che permetta di regolarli a seconda dei casi, per evitare sprechi. L’utilizzo di valvole termostatiche su tutti i radiatori consente di regolare automaticamente l’afflusso di acqua calda in base alla temperatura scelta ed impostata su una apposita manopola graduata. Se la temperatura ambientale supera quella impostata, la valvola strozza l’afflusso di acqua calda, dirottandola verso altri radiatori e impedendo così il verificarsi di sovratemperature fastidiose. Questo accorgimento consente un risparmio energetico fino al 20% ed un risparmio economico consistente se si pensa che 1°C di sovratemperatura implica una maggior spesa di riscaldamento di circa il 6-7%. (Tratto e adattato da: http://scuola.repubblica.it/contributo/due-suggerimenti-semplici/4298/?id_contrib=17, 22-03-2011)
E1. Quali sono le risorse naturali che rischiano di essere sprecate a causa dei due “comportamenti ad alto impatto ambientale” denunciati nel testo?
Acqua, fonti di energia
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2012_10_SNV_E
domanda aperta
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Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002)
A4. Dove viveva la protagonista prima di andare a Mantova? Scrivilo: …………………………….
Torino
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2010_06_SNV_A
domanda aperta
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C6. Completa la frase seguente con il verbo indicato tra parentesi nella forma corretta. Se non lo avessi visto con i miei occhi, non ci ………………….. (credere)
avrei creduto
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2010_06_SNV_C
domanda aperta
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Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998)
A18. Nella parola “diventarlo”, alla riga 69, il pronome “lo” quali parole del testo sostituisce? Trascrivile sulla riga qui sotto. ………………………………………………………………………
essere amico di un altro
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2010_08_PN_A
domanda aperta
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C4. Completa la frase seguente con la forma opportuna del verbo fare. Temo che ieri Mario non ……………………… bene il compito in classe.
abbia fatto
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2010_08_PN_C
domanda aperta
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C7. Trasforma il discorso diretto (tra virgolette) in discorso indiretto, riscrivendolo sulle righe sottostanti. Le Nazioni Unite avevano annunciato: “Entro un anno invieremo una forza di pace”.» Le Nazioni Unite avevano annunciato che......................................... ................................................................................. .................................................................................
entro un anno avrebbero inviato una forza di pace.
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2010_08_PN_C
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A2. Nelle prime 5 righe del testo, quali sono le azioni che fanno meglio capire la furbizia della volpe? Individuane almeno due e trascrivile di seguito. .....................................................................................................................................................................................................................................................................................................................
si mimetizza, si finge morta
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2008_08_PN_A
domanda aperta
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A3. Nell’espressione “bisogna lasciarle tutto il tempo” (riga 5) a quale parola del testo si riferisce il pronome le? Trascrivila di seguito. ....................................................................................................... ....................................................................................................... .......................................................................................................
preda
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2008_08_PN_A
domanda aperta
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LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92)
A13. Come cambia il giudizio della volpe sul riccio nel corso della vicenda? Individua e trascrivi, nell’ordine, almeno due aggettivi che indicano tale cambiamento. .......................................................... .......................................................... .......................................................... .......................................................... ..........................................................
prudente, compunto
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2008_08_PN_A
domanda aperta
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Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014)
B3. Alle righe 17-18 si legge “il che incide negativamente sulle capacità di comprensione”. A quale frase si riferisce “il che”? Ricopiala.
gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi
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2017_08_PN_B
domanda aperta
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C9. Leggi il seguente periodo. “Quando ci siamo incontrati mi hai detto che mi avresti telefonato, ma poi non l’hai fatto e così, dato che non avevo più tue notizie, mi sono preoccupata”. Quante frasi ci sono in tutto? ………………………………………………………..
Sei
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2017_08_PN_C
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UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011)
A5. L’autore interviene nel racconto dicendo di essere d’accordo con quanto pensa la madre dell’abitudine di Martina. Da riga 15 a riga 17, quale frase dimostra chiaramente che l’autore è d’accordo con la madre? Ricopia le parole del testo.
e non aveva poi tutti i torti
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2021_05_SNV_A
domanda aperta
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UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011)
A7. La promessa di Martina è la “migliore possibile” per due ragioni: la prima è che ha buone probabilità di convincere la mamma; qual è la seconda ragione? Riporta la frase del testo che lo dice.
Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande
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